Qualificazione degli Enti Religiosi nel contesto del Terzo Settore
Una questione dibattuta riguarda l’inquadramento degli enti religiosi tra quelli del terzo settore. Secondo quanto stabilito dall’articolo 73 del TUIR, gli enti religiosi che perseguono scopi religiosi o di culto sono considerati enti non commerciali, con conseguente applicazione della disciplina fiscale delineata dagli articoli 143-150 del TUIR, con alcune peculiarità. Gli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica con scopi religiosi o di culto sono assimilati, ai fini fiscali, a quelli aventi finalità benefiche o educative; tale equiparazione si estende anche alle attività dirette a tali scopi. Per gli enti che fanno parte della struttura gerarchica della Chiesa, quali istituti religiosi e seminari, opera una presunzione legale di svolgimento di attività religiose o di culto; per gli altri enti ecclesiastici senza personalità giuridica, il fine religioso o di culto deve essere valutato caso per caso. Le attività religiose o di culto comprendono l’esercizio del culto, la formazione del clero, scopi missionari, catechesi ed educazione cristiana. Anche gli enti con scopi religiosi o di culto appartenenti a confessioni diverse dalla cattolica possono essere considerati enti benefiche o educative, a condizione che ciò sia previsto dagli accordi tra lo Stato italiano e le relative confessioni religiose. L’attività istituzionale degli enti religiosi, per sua natura, è gratuita e non rilevante ai fini fiscali. Le attività diverse da quelle religiose o di culto sono soggette alle leggi statali e al relativo regime fiscale. A seconda delle caratteristiche specifiche, queste attività possono essere considerate fiscalmente irrilevanti, non imponibili o imponibili. Riforma del Terzo Settore La Riforma del Terzo Settore mira a organizzare le attività meritevoli, definite come di interesse generale, che perseguono finalità civiche, solidaristiche e socialmente utili, senza scopo di lucro.
Non tutte le attività rientrano in questa categoria, ma solo quelle elencate all’articolo 5 del D.Lgs. n. 117/2017 e all’articolo 2 del D.Lgs. n. 112/2017. È di tutta evidenza che il beneficio che la Riforma intende assicurare non possa avere come ultimo destinatario gli enti che esercitano le attività di interesse generale (si veda il divieto di distribuire utili, riserve e avanzi di gestione), ma debba giungere ed avvantaggiare le persone che si avvarranno di questi servizi, in quanto resi in modo efficiente rispetto alle risorse utilizzate ed a costi più contenuti. Proprio per assicurare che le risorse siano impiegate solo per la gestione delle attività “di interesse generale”, il legislatore ha inserito l’ulteriore condizione che gli enti gestori non possano esercitare altre attività, se non in presenza di particolari condizioni. Proprio quest’ultimo vincolo è la ragione per cui entrambi i decreti delegati prestano particolare attenzione agli “enti religiosi civilmente riconosciuti”. Gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono svolgere attività di interesse generale solo se adottano appositi regolamenti, istituiscono un patrimonio destinato e mantengono una separazione contabile. Questa limitazione deriva dalla loro natura, che implica un’attività religiosa primaria, non sempre sovrapponibile alle finalità civiche e sociali del terzo settore. La partecipazione degli enti religiosi nel terzo settore è soggetta a specifiche condizioni e limitazioni. Mentre la normativa permette loro di svolgere alcune attività di interesse generale, vi è una netta distinzione tra il loro ruolo principale di natura religiosa e le finalità civiche e sociali del terzo settore. Tale differenziazione riflette la complessità e la diversità delle organizzazioni coinvolte, evidenziando la necessità di una valutazione caso per caso.